DEMANSIONAMENTO ILLECITO DOPO IL REINTEGRO NEL POSTO DI LAVORO DI UN DIPENDENTE ILLEGITTIMAMENTE LICENZIATO

Quando il giudice ordina la reintegra del lavoratore, l’azienda non può demansionare, deve ricollocare il lavoratore nel luogo e nelle mansioni svolte al momento del licenziamento.

È quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione civile con ordinanza 17 gennaio 2023, n. 1293, che, sulla base di due precedenti Cass. n. 23595/2018 e Cass. n. 19095/2013, che ha dichiarato che l’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento

Il caso riguardava un lavoratore di un istituto bancario, che all’indomani della reintegra nel posto di lavoro presso la sede di Napoli, si era visto trasferire in altra unità operativa presso la sede di Milano e con altre funzioni.

La Corte esprime il principio per cui per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’ imprenditore e non dall’ inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità (cfr. Cass. n. 8757 del 2014, n. 21711 del 2012, n. 21481 del 2009, n. 13171 del 2009); che non può ammettersi un trasferimento di ramo d’azienda con riferimento alla sola decisione, assunta dal soggetto cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un’unica funzione al momento del trasferimento, in contrasto con le direttive comunitarie nn. 1998 del 50 e 2001 del 23 che richiedono già prima di quest’atto “un entità economica che conservi la propria identità”, ossia un assetto già formato, e con la Cost., agli artt. 4 e 36, che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l’assenza di riferimenti oggettivi; che neppure a diverse conclusioni può indurre la sentenza 6 marzo 2014 della Corte di Giustizia UE resa nella causa B.B. e altri (C-458 del 12), che va letta non nel senso che non occorre, ai fini di cui trattasi, il requisito della preesistenza, ma che è consentito agli Stati membri prevedere una norma che estenda l’obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche in caso di non preesistenza del ramo d’azienda, e che, ai fini dell’applicazione della direttiva 23 del 2001, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente.

La Corte,  con riferimento all’art. 2103 c.c., ribadisce che l’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento (cfr. Cass. n. 23595 del 2018, n. 19095 del 2013).

Nel merito era stato accertato, con motivazione congrua e logica e pertanto insuscettibile di essere rivista in fatto in Cassazione, la mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro di effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive giustificanti il provvedimento di trasferimento (tenuto conto delle indicate circostanze, appunto, fattuali, relative all’ inquadramento professionale del lavoratore ed alla presenza in Campania di numerose filiali della banca).

Il ricorso dell’istituto di credito veniva respinto, con regolazione secondo soccombenza.

I precedenti sono:

Cass. civ., Sez. lavoro, 28/09/2018, n. 23595

In tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l’indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque dimostrare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.

L’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento. (Rigetta, CORTE D’APPELLO ROMA, 06/06/2016).

In materia di trasferimento dei dipendenti postali, già assunti a termine, la eccedentarietà presso la sede di provenienza, di cui all’accordo sindacale del 29 luglio 2004, non può essere accertata semplicemente sulla base dell’inclusione del comune di precedente adibizione negli elenchi dei comuni definiti eccedentari dal datore di lavoro, ma va effettuata, per ciascuno di detti comuni, sulla base di informazioni relative al numero dei posti in organico, al personale impiegato e alla relativa percentuale di copertura, sì da consentire al dipendente di conoscere ed eventualmente contestare tali dati e al giudice di valutarli. (Rigetta, CORTE D’APPELLO ROMA, 06/06/2016)

Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 09/08/2013, n. 19095

L’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento. (Cassa con rinvio, App. Ancona, 11/11/2010)

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