IL SUIDICIO DELLA VITTIMA DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA PORTA LA PENA DA DODICI A VENTIQUATTRO ANNI DI RECLUSIONE

La sentenza tratta del tema che attiene alla prova del fatto che il suicidio della donna sia causalmente conseguente ai maltrattamenti commessi dall’imputato e a quella dell’elemento psicologico della prevedibilità dell’evento morte.

La prova è certamente costituita dalle frasi dette anche duranti i vari alterchi susseguitisi durante i lunghi anni di rapporto conflittuale: “questa volta se non ti butti tu, ti butto io”; “mi ammazzo”.

Si valorizza anche il fatto che i familiari avevano sentito durante le discussioni quelle frasi sebbene le avessero valutate come esagerate “Lei lo dice, ma non lo fa”, ” diceva cosi per dire”.

Tali prove sono prevalenti anche rispetto ai fatti di segno contrario che evidenzierebbero l’imprevedibilità della volontà della donna di suicidarsi come: a) i ripetuti tentativi di avere figli; b) il progetto di un viaggio da compiere di lì a poco un viaggio insieme all’imputato; c) al progetto di recarsi nel paese dove l’imputato sperava di trovare lavoro; e) al viaggio effettivamente compiuto per le stesse ragioni in altro paese.

Al contrario al fine della prova della previsione del suicidio, può essere valorizzata la circostanza che, al momento in cui la donna si gettò dal balcone, l’imputato si precipitò sul balcone a controllare cosa fosse successo. Infatti ciò rivelerebbe la consapevolezza che quel gesto potesse essere commesso.

Tali pochi elementi vanno a costituire il quadro indiziario solido per attribuire all’imputato la responsabilità dell’aggravante speciale di cui al comma 2 dell’art 572 c.p., che porta la pena da 12 a 24 anni.

L’ipotesi ricostruttiva alternativa, e cioè che la donna avesse intenzione solo di compiere un gesto dimostrativo e che per imperizia cadde nel vuoto, è poco credibile.

Quanto al reato di maltrattamenti in famiglia i giudici di merito con motivazioni puntualissime hanno ricostruito i fatti nel loro sviluppo storico e le dinamiche, anche familiari, che portarono l’imputato e la persona offesa a costruire un travagliato rapporto sentimentale, hanno valutato adeguatamente le prove, spiegato come la decisone della donna di porre fine alla propria esistenza gettandosi dal balcone della propria abitazione fosse maturata in ragione della progressiva condizione di nullificazione della propria persona, dello stato di disperazione in cui la donna era venuta a trovarsi a causa delle condotte vessatorie, violente, minacciose – tutte puntualmente descritte-compiute, anche alla presenza di terze persone, da parte dell’imputato nel corso della lunga relazione.

La personalità della donna era mutata in negativo nel corso degli anni proprio a causa della personalità prevaricatrice, irascibile, collerica dell’imputato, della sua ingerenza sistematica e condizionante in ogni decisione della donna – anche quelle relative alle ordinarie occupazioni giornaliere, delle umiliazioni subite alla presenza di altre persone, che avevano anche condotto l’imputato a mostrare – quasi come un macabro trofeo – le lenzuola sporche di escrementi della donna, che non era riuscita a trattenersi a causa delle aggressioni subite.

Si è chiarito che lo stato di soggezione e di vessazione della persona offesa fosse dunque originato non solo e non tanto da diffuse condotte di violenza fisica- pur compiute e puntualmente descritte-, quanto, piuttosto, attraverso una serie di comportamenti di condizionamento morale, di svuotamento psicologico, di inquinamento progressivo della libertà di autodeterminazione e della personalità, di demolizione della dignità della donna; comportamenti che avevano portato la donna, innamoratissima del suo compagno, a non concludere gli studi, a lavorare anche “per” quel compagno – che non si impegnava abbastanza nel cercarlo-, ad assecondare i convincimenti dell’uomo- anche quelli irrazionali e scaramantici- ad evitare di frequentare alcune persone invise al compagno, ad isolarsi progressivamente, a cancellare per timore ed in modo ossessivo qualsiasi messaggio contenuto sul telefono cellulare.

Da parte sua l’imputato, pur lavorando saltuariamente, aveva un tenore di vita superiore alle sue possibilità, perché riversava proprio sulla compagna e, tramite questa, sulla famiglia di questa, continue richieste economiche sempre più esose, più aggressive, come queste pretese fossero causa di litigi crescenti; si è rappresentata l’affannosa e continua ricerca della donna di denaro soprattutto dalla propria madre, atteso che, diversamente, “se quello non trova i soldi, diventa un pazzo”; un bisogno di denaro fonte di tensioni e paure crescenti, di una condizione di perenne ansia in nome di un legame sentimentale forte ma sempre più faticoso; un rapporto che, nel corso del tempo, aveva consunto la donna, aveva piegato e svuotato quella ragazza, resa incupita, persa.

Una donna schiacciata tra il sentimento per quell’uomo e la disperazione derivante dalla consapevolezza di non poter riuscire a soddisfare ancora a lungo le richieste di denaro che l’imputato, con un livello di aggressività sempre crescente, reclamava per soddisfare i più disparati e futili bisogni. In tale articolato quadro di riferimento sono stati puntualmente descritti gli accadimenti del (OMISSIS):

a) la “ribellione” della mamma della donna alla ennesima esosa richiesta di denaro dell’uomo;

b) il terrore e lo sconforto che quella “ribellione” cagionò nella donna;

c) la reazione scomposta, minacciosa, violenta dell’imputato;

d) le suppliche della vittima di “lasciarla stare”, di smetterla perchè le stava “facendo male” altrimenti “se non la finisci mi butto giù dal balcone”;

e) la replica dell’imputato – che continuava a tirare la donna per le scale verso il loro appartamento al quarto piano- a quella implorazione ” stavolta se non ti butti tu, ti butto io”;

f) le urla della donna “non ce la faccio più, non ce la faccio, aiuto, aiuto”;

g) il tentativo disperato di intervenire da parte della mamma della donna;

h) l’imputato che, sceso, gridava ” … si è buttata giù dal balcone”.

Il reato aggravato sussiste, l’evento morte è  causalmente imputabile sul piano oggettivo all’imputato, si esclude l’esistenza di altre possibili ragioni che potessero indurre la donna a gettarsi dal balcone, togliendosi la vita.

Entrambe le sentenze di merito hanno correttamente applicato i principi da tempo affermati dalla Corte secondo cui sussiste la fattispecie di cui all’art. 572 c.p., comma 2, non solo nei casi in cui la morte della vittima delle condotte di maltrattamenti sia conseguenza diretta delle violenze fisiche materialmente commesse dall’autore del reato, ma anche quando sia stata la stessa vittima a darsi la morte, qualora il suicidio sia da mettere in sicuro collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti pregressi, così da determinare nella vittima uno stato di prostrazione e di disperazione tale da costituire un vero e proprio attentato alla sua integrità fisica e morale, così grave ed irrimediabile da spingerla alla morte (Sez. 6, n. 44492 del 15/10/2009, D.N., Rv. 245478; Sez. 6, n. 12129 del 29/11/2007, dep. 2008, P. Rv. 239585; Sez. 6, n. 8405 del 19/02/1990, Magurno; Sez. 6, n. 722 del 28/06/1971, Perretti).

Quanto al tema del nesso eziologico tra la condotta dei maltrattamenti e il suicidio della vittima, si è già chiarito in giurisprudenza come non possa essere condivisa l’impostazione secondo cui un tale evento potrebbe essere causalmente addebitato all’autore del reato “base” solo nei casi in cui trovi nella condotta di maltrattamenti la sua unica causa.

Si tratta di una impostazione secondo cui il termine “derivare”, di cui all’art. 572 c.p., comma 2, dovrebbe essere interpretato nel senso che la causa delle lesioni o della morte “deve essere tutta contenuta nel fatto dei maltrattamenti”, in quanto ha in questi la sua causa fisica, diretta, immediata ed esclusiva. L’evento morte, si assume, deve trovare la sua origine nell’attitudine dei maltrattamenti “ad espandere la loro potenzialità lesiva e a rendere concreta la loro capacità di offendere anche il bene della vita”. In questo modo, la morte della persona offesa a seguito dei maltrattamenti viene ritenuta come “derivata” dalla condotta dell’autore del reato solo se sia intervenuta senza il concorso di altre concause, il che porta alla sostanziale negazione dell’attribuibilità del suicidio della vittima all’autore dei maltrattamenti, ogni qual volta nella serie causale si introduce la scelta autonoma di chi decide di togliersi la vita.

In tema di causalità naturale, gli eventi non sono prodotti da una sola ed unica causa e l’uso della espressione “derivare” rivela non una deroga ai principi posti dallo stesso art. 41 c.p., quanto, piuttosto, un rinvio alle regole generali con cui il codice penale regolamenta l’imputazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato.

Dunque la condotta suicida può considerarsi come una causa sopravvenuta che abbia potenziato l’efficienza causale dei maltrattamenti, anche concorrendo a produrre l’evento; ne consegue che qualora il suicidio della vittima dei maltrattamenti sia stato posto in essere per sottrarsi alle sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente, potrà riconoscersi la sussistenza di un rapporto eziologico diretto tra la condotta dell’autore dei maltrattamenti e il suicidio della persona offesa, a meno che non si verifichi una causa autonoma e successiva, che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile (Sez. 6, n. 12129 del 29/11/2007, dep. 2008, P., Rv. 239585).

L’evento morte era  soggettivamente attribuibile all’imputato sul piano della sua prevedibilità in concreto.

Il tema, come è noto, attiene alla compatibilità di un delitto aggravato dall’evento morte per suicidio e con il principio di colpevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 364 del 1988; n. 1085 del 1988); è necessario che l’evento ulteriore, per essere attribuito all’agente, sia ancorato a un coefficiente di prevedibilità concreta del rischio derivante dalla consumazione del reato base.

Per garantire il principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale nei casi di suicidio seguito alla condotta di maltrattamenti è necessario che l’evento sia la conseguenza prevedibile della condotta di base posta in essere dall’autore del reato e non sia invece il frutto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima, imprevedibile e non conoscibile da parte del soggetto agente, al quale non potrà, in tal caso, muoversi alcun rimprovero.

In sostanza, se la condotta suicida sia del tutto imprevedibile, allora l’evento morte non può essere rimproverato all’autore dei maltrattamenti.

Si tratta, si è osservato di un giudizio di prognosi postuma rimesso al giudice di merito, il quale, collocandosi in una prospettiva ex ante, cioè riferita al momento in cui si è svolto il fatto, deve attentamente vagliare e ricercare eventuali segnali che dimostrino che l’autore dei maltrattamenti avrebbe potuto prevedere l’azione suicida della sua vittima (sul tema, Sez. U, n. 22676 del 22/01/2019, Ronci, Rv. 243381; più recentemente. Sez. 6, n. 38060 del 04/04/2019, Ancora, Rv. 277286).

Nel caso di specie la Corte di assise d’appello ha spiegato in modo non manifestamente illogico come fosse prevedibile per l’imputato, a cui era ben nota la condizione di estrema fragilità in cui la donna era stata ridotta, il suicidio della donna, che dunque non fu affatto il risultato di una libera autodeterminazione imprevedibile da parte della vittima (vengono analiticamente indicate tutte le circostanze concrete da cui è stata fatta discendere la prova della piena consapevolezza da parte dell’imputato della esistenza della idea del suicidio in capo alla vittima e della correlazione tra detta idea e le continue condotte vessatorie poste in essere dal ricorrente).

Corte di cassazione Sez. 6 Sentenza n. 8097 del 23/11/2021 Ud. (dep. 07/03/2022) Rv. 282908. Presidente: MOGINI STEFANO. Estensore: SILVESTRI PIETRO. Relatore: SILVESTRI PIETRO. 

In tema di maltrattamenti in famiglia, sussiste il nesso causale tra la condotta maltrattante e il suicidio della vittima se questo è posto in essere come rimedio alle continue sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente e non ha una causa autonoma e successiva, che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile.

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