LA CEDU CONDANNA L’ITALIA PER AVER COSTRETTO I FIGLI MINORI A VEDERE IL PADRE VIOLENTO PER ANNI SENZA REAZIONE DEL TRIBUNALE DEI MINORI

Il ricorso riguarda l’asserito inadempimento da parte dello Stato convenuto del dovere di proteggere e assistere la prima ricorrente e i suoi figli (la seconda e la terza ricorrente) durante gli incontri con il padre di quest’ultima, un tossicodipendente e alcolizzato accusato di maltrattamenti e minacce nei confronti della prima ricorrente. Si trattava anche della decisione dei tribunali nazionali di sospendere la potestà genitoriale della madre, considerata un genitore “ostile agli incontri con il padre” in quanto aveva invocato atti di violenza domestica e la mancanza di sicurezza agli incontri per rifiutarsi di parteciparvi.

CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI

Corte EDU, Sezione Prima, Sentenza del 10 novembre 2022, ricorso n. 25426/2020, I.M. e altri contro Italia: La Prima Sezione delle Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione del diritto alla vita familiare (art. 8 CEDU) da parte dello Stato italiano nei confronti dei figli minori di un padre violento e della madre di questi ultimi, vittima di violenza domestica, per avere lasciato che, pendenti procedimenti sulla responsabilità genitoriale, per più anni i minori incontrassero il padre violento in un ambiente non adeguatamente protetto e per avere sospeso la responsabilità genitoriale alla madre degli stessi, considerata non collaborativa e ostile all’altro genitore, nonostante gli atti di violenza domestica e la mancanza di sicurezza degli incontri

Il padre veniva descritto come un individuo dal comportamento aggressivo e incapace di controllare i propri impulsi e la propria frustrazione. L’esperto incaricato dal centro ha raccomandava incontri in un ambiente protetto, sottolineando che la madre era indebolita dalla violenza subita, ma che aveva capacità genitoriali. La relazione raccomandava comunque alla madre di astenersi dall’interferire nel rapporto tra i bambini e il loro padre. Il documento affermava inoltre che la madre si era accorta che i suoi figli si sentivano a disagio dopo gli incontri.

Mentre le relazioni degli assistenti sociale affermavano che il padre continuava ad avere sfoghi verbali contro la madre, che parlava male di lei ai suoi figli durante gli incontri, che questi erano obbligati ad effettuare, e che non era disposto a rispettare le istruzioni degli assistenti sociali, anzi che non riusciva a controllare la sua rabbia e che questo esponeva i bambini a un forte stress. Successivamente il padre veniva allontanato dalla sala riunioni in due occasioni perché si era comportato in modo aggressivo, anche fisicamente, nei confronti del personale e degli oggetti presenti nella sala. L’assistente sociale riteneva che non fosse possibile continuare con gli incontri, poiché non era garantita la sicurezza dei bambini e del personale. La psicologa redigeva una relazione in cui chiedeva di spostare gli incontri in un’altra stanza al piano terra, in modo che le persone coinvolte potessero fuggire facilmente per proteggere se stesse e i bambini dalla violenza del padre.

Nonostante tutte queste relazioni, il Tribunale dei minori di Tivoli non decideva alcunché.

Nel frattempo, però, aveva revocato la potestà genitoriale della madre, solo perché cercava di tutelare i figli.

Solo dopo quattro anni di estenuanti esposizioni dei figli ai colloqui violenti con il padre una psicologa dichiarava che la madre aveva dimostrato di essere un genitore premuroso nei confronti dei figli in difficoltà, anche perché stava seguendo una psicoterapia.

Pertanto gli assistenti sociali chiedevano che le venisse restituita la potestà genitoriale, ritenendo che fosse in grado di esercitare il suo ruolo di genitore.

Finalmente il Tribunale di Tivoli ripristinava la potestà genitoriale della madre e revocava quella del padre, per il suo comportamento aggressivo, distruttivo e sprezzante durante le riunioni, il quale era venuto meno al suo dovere di garantire ai figli uno sviluppo sano e sereno.

La sentenza Cedu richiamava recenti sentenza della Cassazione civile che hanno annullato sentenza di revoca della potestà genitoriali delle madri ritenendo che le misure relative alla potestà genitoriale non possono basarsi su teorie prive di fondamento scientifico come la sindrome di alienazione parentale

Con l’ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022, la Corte di Cassazione ha annullato una decisione – confermata dalla Corte d’Appello di Roma – con cui il Tribunale per i minorenni di Roma aveva disposto il collocamento di un minore in una casa famiglia dopo aver pronunciato la decadenza dalla potestà genitoriale della madre, che per anni aveva vissuto con lui nel timore di un provvedimento di revoca della potestà genitoriale a causa della costante invocazione, in sede processuale, della sindrome di alienazione parentale e di tutte le sue conseguenze: “La violazione del diritto alla co-genitorialità da parte di un genitore che ostacola il rapporto del minore con l’altro genitore (anche attraverso comportamenti che equivalgono a gravi forme di violenza psicologica) e la conseguente necessità di garantire l’attuazione di tale diritto non richiedono necessariamente la privazione della potestà genitoriale del genitore malintenzionato e l’allontanamento del minore dalla sua casa, misure estreme che inevitabilmente recidono ogni rapporto giuridico, morale e psicologico tra il minore e l’altro genitore”.

Con ordinanza Ordine n. 13217 del 17 maggio 2021, la Corte di Cassazione ha precisato che i giudici sono tenuti a verificare la veridicità delle accuse di comportamenti dannosi per i minori e che non possono limitarsi a fare affidamento sulle competenze tecniche: “Quando, nell’ambito di un procedimento di affidamento di un figlio minore, un genitore imputa all’altro genitore, allo scopo di modificare il regime di affidamento, un comportamento volto ad allontanarlo moralmente e materialmente dal figlio, comportamento descritto come rivelatore della sindrome di alienazione parentale (PAS) – in questo caso nella sua varietà di “sindrome della madre malintenzionata”, il giudice del processo deve verificare la realtà di questo comportamento attraverso le ordinarie modalità di prova – comprese le perizie tecniche e le presunzioni – indipendentemente da ogni astratta considerazione sull’esistenza di questa patologia scientificamente provata e tenendo presente che la capacità genitoriale comprende anche la capacità di preservare il mantenimento dei rapporti parentali con l’altro.

Le accuse di abuso da parte del partner vengono spesso respinte con motivazioni dubbie come la “sindrome di alienazione parentale” e le madri vengono incolpate della riluttanza dei figli a incontrare i padri violenti. I test di personalità non adattati alle situazioni di violenza fanno sì che molte vittime siano state ritenute non idonee come genitori. Il GREVIO sottolinea l’alto rischio e il potenziale della nozione di alienazione parentale e dei concetti ad essa correlati di essere utilizzati in modo tale che la violenza contro le donne e i loro figli rimanga inosservata e/o incontrastata, quando si ignora la natura di genere della violenza domestica e gli aspetti essenziali del benessere dei bambini.

Di conseguenza, non solo alcuni tribunali civili e alcuni TCU non riescono a individuare i casi di violenza, ma tendono a ignorarli. Quando vengono avviati procedimenti penali paralleli, possono verificarsi situazioni in cui le vittime vengono spinte a ritirare le accuse penali contro l’autore del reato, partendo dal presupposto che la prosecuzione di tali accuse impedisce la pace familiare e l’accordo sulle questioni di custodia e accesso, in nome di principi quali la “disposizione amichevole dei genitori”.

Il GREVIO ha raccolto ampie prove, tra cui numerose testimonianze individuali, che suggeriscono che i tribunali civili spesso impongono alle vittime di incontrare il partner violento, indipendentemente dalla denuncia della vittima e senza un’adeguata verifica e valutazione dei rischi, fino a quando non viene raggiunto un accordo “amichevole”.

Il GREVIO osserva che la formulazione generica delle disposizioni di legge applicabili non fornisce alcuna guida per evitare le pratiche giudiziarie problematiche sopra descritte. Rileva inoltre che, pur essendoci alcuni esempi di buone pratiche giudiziarie, la giurisprudenza dei tribunali superiori non vieta sistematicamente l’uso di argomenti difensivi basati o affini all'”alienazione parentale”, né afferma chiaramente il dovere dei giudici di effettuare una valutazione dei casi di violenza domestica e di rischio al fine di determinare l’interesse superiore del bambino.

Il GREVIO esorta le autorità italiane a prendere le misure necessarie, compresi gli emendamenti legislativi, per garantire che i tribunali competenti siano obbligati a esaminare tutte le questioni relative alla violenza contro le donne nel determinare i diritti di custodia e di accesso e a valutare se tale violenza giustifichi la restrizione della custodia e dell’accesso. A tal fine, le autorità dovrebbero: …omissis…abbandonare la pratica di richiedere alla vittima e ai suoi figli di partecipare a incontri congiunti con l’autore del reato per raggiungere un accordo sull’affidamento e la visita, che equivale a una mediazione obbligatoria…omissis…

SU QUESTE BASI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ, dichiarava la domanda ammissibile, riteneva che vi era stata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione; condannava lo Stato convenuto a pagare  entro tre mesi dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva ai sensi dell’articolo 44 § 2 della Convenzione, 7.000 euro (settemila euro) più qualsiasi importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta, a titolo di danno non patrimoniale; b) che l’accertamento della violazione costituisce di per sé una giusta soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dal primo ricorrente.

 

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