La Cassazione si è pronunciata ritenendo commesso il reato di maltrattamenti da parte del marito che imponeva alla persona offesa un regime di risparmio domestico, e inizialmente condiviso o, comunque, tollerato dalla donna, ma poi divenuto a questa del tutto insopportabile.
La sentenza Cass. pen., Sez. VI, Sent., (data ud. 20/10/2022) 17/02/2023, n. 6937 ha stabilito che: In tema di reato di maltrattamento in famiglia, ove le modalità di imposizione di una condotta di vita ispirata al “risparmio domestico” si traducano in modalità di controllo del coniuge nei confronti dell’altro che, per la loro pervasività, sconfinino in un vero e proprio regime e assillo, tale da cagionare alla persona offesa uno stato di ansia e frustrazione, le stesse ben possono rientrare nella nozione di maltrattamenti.
La Corte di merito descriveva “il clima di ossessivo controllo ed isolamento in cui l’imputato aveva costretto la persona offesa, fin dall’inizio della loro convivenza e progressivamente aggravatosi dopo il matrimonio” e che hanno confermato le angherie, i soprusi e le violenze poste in essere dall’imputato nei confronti della moglie e dalla donna confidate alle amiche, che del resto potevano verificare, in occasione degli incontri con la B.B., il “terrore” della donna alle continue telefonate di controllo del marito, da loro direttamente percepito (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata). Si tratta di elementi del narrato delle dichiaranti che riferiscono fatti anche risalenti nel tempo a comprova della abitualità dei comportamenti dell’imputato e che costituiscono il risultato non solo di confidenze ricevute dalla persona offesa ma anche di comportamenti da loro stesse rilevati (le continue telefonate; il terrore della B.B.) e che travalicano le possibili suggestioni alle quali le stesse potrebbero essere state esposte per effetto dell’avvicinamento prima della loro escussione.
Molto controversa nei motivi, ma parimenti esaminata nella sentenza impugnata (ivi, pag. 8), è la valutazione del riscontro costituito dalle dichiarazioni rese dal padre della persona offesa che è stato teste diretto sia del sistema di risparmio domestico cui l’imputato aveva costretto la persona offesa che della presenza di lividi sulle braccia della figlia. Il teste ha anche precisato che, in qualche occasione, egli aveva udito investire la donna di epiteti ingiuriosi attraverso il telefono posizionato in via voce; che aveva, inoltre, ricevuto le confidenze delle figlia su due episodi in cui il marito le aveva procurato lesioni, una volta perchè il marito l’aveva scossa violentemente, mentre usciva dalla doccia facendola cadere a terra, tra il lavandino e la doccia; un’altra volta perchè le aveva messo lo sgambetto, facendola rovinare a terra e, infine quando (e a tale episodio aveva direttamente assistito nel mese di giugno 2016, si tratta dell’episodio contestato al capo d), spingendo violentemente la porta blindata contro il piede della B.B. che si opponeva al suo ingresso in casa, l’imputato le aveva cagionato delle contusioni, oggetto di contestazione al capo d). Il teste stesso aveva riferito, in dibattimento, che la persona offesa gli aveva detto che tali lividi le venivano procurati dalla figlia e che solo successivamente la B.B. gli aveva, invece, riferito che erano esiti delle violenze del marito e la inattendibilità del racconto della persona offesa. La sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha ritenuto attendibili le dichiarazioni del padre della persona offesa sia per la parte delle confidenze ricevute, sia in relazione agli episodi di lesioneche avevano trovato ulteriore conferma nel contenuto dei referti medici e, anche nelle fotografie in atti. Correttamente la Corte non ha ritenuto condivisibile la tesi sul giudizio di inattendibilità del padre della persona offesa, proposta già con l’appello, evidenziando come la persona offesa aveva solo con il tempo trovato la forza di riferire il suo vissuto familiare, taciuto anche al padre che, dunque, ha riferito con precisione e completezza quanto da lui appreso dalla figlia in distinti momenti. Il giudice di appello ha dato atto della particolare valenza del contenuto dei referti coincide perfettamente, ed è pertanto stata posta a conforto del giudizio di attendibilità della dichiarante, con il racconto dell’episodio fatto dalla vittima e dal padre. La sentenza impugnata ha esaminato criticamente le diverse conclusioni alle quali era pervenuto, con riguardo alla eziologia delle lesioni, il consulente di parte dell’imputato sulla scorta di argomentazioni in fatto del tutto logiche e coerenti e non suscettibili, pertanto, di revisione in questa sede. La sentenza evidenzia come le modalità della presa dell’aggressore; la durata della pressione esercitata, quanto alle lesioni del 13 giugno 2016; la tipologia delle calzature indossate dalla vittima e la modalità di opposizione alle spinte della porta, giustificano il giudizio di inattendibilità delle conclusioni del consulente di parte che risultano “frutto di speculazione teorica sulle possibili cause della lesione” quanto al fatto reato sub capo c), inconferenti e non convincenti, con riguardo al reato di lesioni sub capo d). Sulla base del giudizio di attendibilità della persona offesa deve confermarsi anche la conclusione della “volontarietà” delle lesioni cagionate che, pur inserendosi in un contesto di concitazione, sono riconducibili, per le modalità esecutive, ad una vera e propria aggressione e non frutto del caso o di movimenti bruschi. Gli elementi acquisiti, sulla scorta di un compendio probatorio multiforme, non sono suscettibili di ridimensionamento neppure attraverso le dichiarazioni dei congiunti dell’imputato che, viceversa, denotano un atteggiamento di condivisione dei valori sui quali l’imputato aveva costruito il rapporto con la B.B. Non è revocabile in dubbio che l’elemento in apparenza dotato di maggior efficacia dimostrativa sul punto della “inattendibilità” della persona offesa è costituito dalle risultanze della consulenza tecnica di ufficio disposta nel giudizio di separazione per l’affidamento della figlia minore della coppia e che ha determinato l’affidamento della minore ai servizi sociali. Il ricorrente ha richiamato espressamente (e sono riportati nel Ritenuto in fatto) le conclusioni dei consulenti sulla personalità della donna replicando gli argomenti che già con i motivi di appello (cfr. in particolare pag. 5 della sentenza impugnata per l’analitica disamina) erano stai allegati a comprova della complessa e travagliata sequenza della separazione iniziando dalla finalità della donna di “eliminare” la figura paterna dal rapporto della figlia passando attraverso comportamenti diretti a trasmettere alla minore ansie e sentimenti di contrarietà verso il padre; al ritardo della denuncia di maltrattamenti, taciuti in sede di domanda di separazione, ed emersi solo in un momento successivo. Il panorama si completa, nella prospettazione difensiva, con il riferimento alla denuncia della persona offesa verso l’educatrice che seguiva gli incontri padre-figlia e con la pendenza di un procedimento a carico dell’odierna persona offesa per le ostilità poste in essere nel corso degli incontri della minore con l’imputato. Ritiene il Collegio che correttamente la Corte di appello (pag. 10 della sentenza impugnato) non ha condiviso il giudizio negativo sui connotati di personalità della persona offesa sconfessati dagli elementi di prova acquisiti e dal giudizio di attendibilità intrinseca della dichiarante, fondato sugli elementi evincibili direttamente dall’attività istruttoria svolta nel dibattimento penale, e che il giudice di primo grado – all’esito di un procedimento di acquisizione della prova fondato sul contraddittorio – aveva formulato sulla teste evidenziandone, oltre agli elementi di credibilità estrinseca innanzi illustrati, anche i tratti di attendibilità intrinseci che attengono alla chiarezza, dettaglio, costanza nel tempo della narrazione risultata conforme a quella resa in fase di indagini (non essendo emerse discrepanze in assenza di contestazioni di rilievo); alla genuinità delle dichiarazioni, attestata dalla chiara sofferenza manifestata dalla teste nel corso dell’esame, dai sentimenti di vergogna e paura raccontati che le avevano impedito, per lungo tempo, di allontanarsi dal marito. Premesso che la consulenza di parte richiamata dalla difesa è culminata nel giudizio di inaffidabilità di entrambi i genitori (quindi anche dell’imputato) con l’affidamento della minore ai servizi sociali e collocazione presso la madre, rileva il Collegio che la Corte di merito ha anche richiamato, a giustificazione dell’atteggiamento difensivo verso i consulenti e protettivo verso la figlia tenuti dalla persona offesa, le risultanze della consulenza di parte della parte civile che ne ha evidenziato la veridicità del racconto comprovata dalle modalità espressive attraverso cui il soggetto narrante recupera tracce mnestiche estremamente dolorose e ha un corrispondente stato emotivo di grave turbamento psichico. Spiega, il consulente della parte civile, come la B.B. da donna solare, in salute e aperta al futuro, in esito alla convivenza con il marito, sia divenuta persona isolata, abbia perso le autonomie personali riducendosi progressivamente a persona affetta da disturbo post traumatico da stress, con momenti di aperta angoscia e idee suicidali. Una situazione psicologia, causata, conclude il giudice di appello, evidentemente dai maltrattamenti subiti dal marito che costituisce la ragione degli atteggiamenti difensivi tenuti dalla donna verso l’imputato dopo la separazione e nel corso dell’azione civile. Tale conclusione, oggetto, come anticipato, di analitico esame e giustificazione logica completa e asseverata dal richiamo a composite fonti di conoscenza, riporta al centro dell’attenzione i rilievi della difesa sulla ritenuta configurabilità del reato di maltrattamenti che, in particolare nel corso dell’odierna udienza, i difensori del ricorrente hanno messo in dubbio sia con riferimento alla durata dei comportamenti maltrattanti sia per la configurabilità della stessa condotta tipica. L’attenzione delle difese si è concentrata, in particolare, sull’aspetto dell’atteggiamento di “risparmio domestico” in cui sarebbe consistita la condotta maltrattante. E’ indubitale, a fronte della genericità della fattispecie incriminatrice, la necessità di leggere la condotta di maltrattamenti in termini di tipicità e tassatività poichè è compito del giudice ordinario evitare che – a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente tipizzata del fatto represso – la norma incriminatrice possa colpire anche fatti che luoghi comuni riconducono alla nozione di maltrattamenti ricomprendendo in tale nozione comportamenti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità e di idoneità all’offesa del bene giuridico. Non occorrono molte parole per evidenziare che il rapporto matrimoniale impegna ciascuno dei coniugi ad un progetto di vita che riguarda anche le spese e il risparmio. L’art. 143 c.c. afferma che con il matrimonio i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, si impegnano a contribuire ai bisogni della famiglia dopo la precisazione che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. E’ prevedibile e ragionevole che con il matrimonio i coniugi stabiliscano anche uno stile di vita, magari improntato al risparmio, anche rigoroso e non necessitato, ma è indiscutibile che tale stile di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, men che mai in quelle che sono le minimali e quotidiane esigenze di vita in casa e accudimento personale. Il tema che viene in rilievo non è, dunque, il risparmio domestico, ma la condivisione o imposizione di tale stile di vita. La persona offesa, invece, ha riferito vere e propri modalità di imposizione e coartazione del “risparmio domestico” che non solo le state conculcate dall’imputato ma che sono state accompagnate da modalità di controllo del marito sulla moglie che, anche per la loro pervasività, sono sconfinate in un vero e proprio regime e assillo, tale da cagionare alla persona offesa uno stato di ansia e frustrazione. La sentenza di primo grado e quella di appello contengono un campionario di comportamenti davvero singolare sulle modalità di risparimio domestico alle quali, peraltro in mancanza di necessità impellenti poichè entrambi i coniugi avevano un lavoro e uno stipendio, l’imputato intendeva sottomettere la persona offesa, come la scelta dei negozi in cui fare la spesa (che potevano essere solo quelli notoriamente a costo contenuto); le caratteristiche dei prodotti (che non potevano essere di marca e dovevano essere prodotti in offerta) sia per la casa che per l’abbigliamento, comportamenti accompagnati da modalità di controllo particolarmente occhiute e afflittive, tanto che la B.B. era costretta a buttare via gli scontrini; a nascondere gli acquisti; a lasciare la spesa a casa dei genitori; a chiedere alle amiche di dire che le avevano regalato qualcosa che aveva acquistato. Analoghe modalità impositive e costrittive connotavano anche la vita domestica della B.B. e le più intime e personali cure per la sua persona e la gestione del rapporto con la figlia (la persona offesa ha riferito che era costretta ad utilizzare solo due strappi di carta igienica; a recuperare, per il successivo reimpiego, in una bacinella l’acqua utilizzata per lavarsi il viso o per fare la doccia, che poteva fare solo una volta a settimana; ad utilizzare solo una posata e un piatto per pasto). I rilievi del marito, poi, non si esaurivano nella mera critica di suoi comportamenti diversi da quelli impostile perchè i rilievi alla contravvenzioni delle regole erano accompagnati da espressioni ingiuriose e offensive che erano ben presto trasmodate dalla critica per la mancata attenzione alle spese (l’epiteto sprecona) a giudizi totalizzanti sulla persona per la sua inettitudine che le veniva continuamente rinfacciata (…tu sei nessuna…tu sei un’insicura…il tuo lavoro lo sanno fare tutti), culminati, a fronte delle difficoltà avute durante il parto, nelle affermazioni “taci, le donne che partoriscono perdono la testa, è un dato di fatto, lo dicono le statistiche e lo dice la storia die popoli, e accompagnati da aggressioni fisiche fra le quali, oltre a spinte e strattonamenti, quella di “tirarle la faccia”, prendendola per le guance e urlandole contro. Emblematica (vedi sul punto la sentenza di primo grado, a pag. 5) della vera e propria condizione di sudditanza imposta alla coniuge la circostanza in cui, avendo la persona offesa gettato un tovagliolino di carta, l’imputato l’aveva presa, portata davanti all’immondizia e prelevato il tovagliolino stringendola le aveva detto “questo, vedi, si può utilizzare ancora” e ciò detto lo aveva aperto e aggiunto “questo si può tagliare addirittura in dieci pezzi”, ingiuriandola. O, ancora, la circostanza, verificatasi nel mese di settembre 2015, quando aveva tentato di costringerla a mangiare gli avanzi di pappa della bambina dicendole che avrebbe dovuto inginocchiarsi e mangiare la pappa avanzata, il tutto accompagnato da ingiurie. Risulta evidente, dall’univoco quadro descritto nelle sentenze di merito che la persona offesa era stata sottoposta ad un risalente (la coppia si era conosciuta nel 2008; i due avevano iniziato a convivere nei primi mesi del 2009 e si erano poi sposati nel 2013 e solo nel mese di settembre 2015 la B.B. aveva presentato istanza di separazione) ed ingravescente sistema di vita contraddistinto da condotte di denigrazione, mortificazioni, ingiurie – oltre al clima di isolamento sociale alla quale l’aveva progressivamente ridotta -, sistema di vita che il ricorso, appiattito sulle condizioni di ri Spa rmio domestico, non ha neppure preso in considerazione omettendo qualsiasi confronto con le modalità esecutive e con il regime di controlli che l’imputato aveva attuato nel corso degli anni per “conformare” ai propri desiderata i comportamenti della moglie. Lineare e logica è, dunque, la motivazione con la quale i giudici di appello hanno confermato la solidità del quadro probatorio asseverante l’abitualità delle condotte maltrattanti dell’imputato che si è risolta in comportamenti impositivi e inutilmente vessatori e mortificanti, protrattisi per anni e funzionali alla costruzione di un sistema di vita domestico, inizialmente tollerato dalla persona offesa – che ha precisato di avere già scoperto tali atteggiamenti durante la convivenza ma che aveva ritenuto potessero attenuarsi nel tempo – e che, invece, con il matrimonio e la nascita della bambina si erano aggravati tanto che avevano finito, e questo le aveva dato la spinta per la separazione, con il riguardare anche il rapporto della B.B. con la figlia che, secondo il ricorrente, non doveva mostrare verso la bambina comportamenti e parole troppo dolci e affettuosi (non poteva, ad es. chiamarla amore) che l’avrebbero resa insicura chiamandola invece, cozza o vongola. Nel caso in esame, correttamente i comportamenti dell’imputato, riguardati sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo, sono stati sussunti nel reato di maltrattamenti perchè le condotte seriali tenute denotano a chiare lettere sia l’abitualità che un comportamento impositivo del proprio volere realizzato sia con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona (le descritte ingiurie e contumelie rivolte alla persona offesa ma anche i commenti tesi a sminuirla come donna, come madre e come medico), aggressivi (si pensi allo scuotimento, allo strattonamento, al tirarle le guance urlando), e attraverso un sistema di vere e proprie proibizioni capaci di produrre sensazioni dolorose ancorchè tali da non lasciare traccia e che si sono risolte in un sistema di sofferenze lesivo del patrimonio morale del soggetto passivo e che hanno reso abitualmente dolorose le relazioni familiari determinando uno stato di avvilimento e frustrazione.